Io sono il milanese.

Da pochi giorni ho concluso l’ascolto di “Io ero il milanese”.

Tu non mi conosci, ma a questo punto io conosco di te alcune cose significative e forti al punto che ti scrivo in un impeto di affetto: spero che non ti offenda, né ti disturbi l’asimmetria del rapporto. 

Ascoltandoti, molto presto sono stato colpito dalla sensazione che non c’è reale differenza fra te e me, che la vita dei tuoi primi trent’anni avrebbe potuto essere la mia, che la differenza non è nell’essenza, ma nell’ambiente.

Cerco di spiegare. 

Sono nato al nord da due genitori benestanti, padre impiegato, madre casalinga, paese tranquillo, vita tranquilla, scuola, liceo, università, lavoro, e sono qui. 

Ma se fossi nato da padre rapinatore in carcere, e a 10 anni fossi arrivato al sud, non avrei fatto anch’io la “scelta più facile”, e non mi sarei ritrovato rapinatore?

Sento che è assolutamente possibile, che è un universo parallelo del tutto plausibile, che intelligenza e sensibilità non implicano bontà: la nostra essenza è naturalmente selvaggia, solo la costruzione culturale e sociale fonda il bene.

Fin da ragazzo ho letto molto, alla ricerca di tante cose, della conoscenza, della verità, del destino, dell’uomo; alcune volte ho trovato libri che sono stati per me punti di svolta importanti; il tuo racconto lo è, hai aggiunto un tassello fondamentale alla mia visione dell’uomo. 

Sento che la tua testimonianza ha un valore universale, che coinvolge e riguardi tutti, e che ha una straordinaria forza formativa.

Provo un sentimento di gratitudine profonda. 

Provo anche dolore per ciò che hai vissuto e sofferto e fatto soffrire, naturalmente; ma lo sento come un sacrificio, è stata sofferenza per qualcosa di sacro, hai portato qualcosa di sacro a tutti noi.

Sei così aperto e disarmato, così intenso nello sforzo di chiarire a te stesso il tuo vissuto e di comunicarlo a chi ti ascolta, che immediatamente lasciamo ogni difesa e veniamo trascinati nei tuoi panni.

Questa immedesimazione empatica diventa vita esperita, diventa coscienza e conoscenza. 

Ci si riconosce come in uno specchio: io sono te, anche a me sarebbe potuto capitare, anzi, è davvero capitato a me, io non sono diverso da te, tu non sei altro da me. 

È un movimento di presa di responsabilità, riconoscere che la società intera, tutti noi, dobbiamo assumerci la responsabilità della delinquenza, è colpa nostra, abbiamo abbandonato, non siamo ancora riusciti a compiere lo sviluppo di una società fondata sul bene, dobbiamo ancora lavorare moltissimo, servono ancora sforzi enormi, non dobbiamo bandire nessuno. 

Riconoscere che il male è in tutti noi, è inestirpabile, è accaduto a te, ma sarebbe potuto accadere a me, dunque voglio essere comprensivo, tollerante, empatico, compassionevole, amorevole, solo questo ci salverà, avere fiducia che, sì, ho sbagliato ma non accadrà più, perché ora so. 

Solo l’idea che il male è assenza di bene, che se mi viene data conoscenza e coscienza non posso fare male, perché sarebbe fare male a me stesso, perché io sono te, che tu sia uomo, donna, bambino, animale, solo quest’idea può salvarci. 

Penso che questa tua testimonianza, questo tuo documento, debba avere la diffusione più ampia, che sia salutare e d’aiuto per il nostro destino, come altri documenti fondamentali della storia dell’umanità.


Del carcere ho sempre pensato molto alla dimensione monastica, di spazio ritirato dalla società, spazio di clausura, sottoposto ad una regola. 

I carcerati sono costretti monaci. 

Ma l’uomo è sempre costretto da molte necessità. 

La libertà dai vincoli non esiste; la libertà è sempre, prima di tutto, interiore.

È forza creativa. 

I carcerati sono costretti in molti più modi, rispetto ai “liberi”, ma sono liberi dalla necessità di lavorare; hanno il tempo, molto più tempo di quanto ne abbiano i “liberi”, ed il tempo è uno dei beni più preziosi, per i “liberi”.

Ma i carcerati non sanno che farsene del tempo, anzi li esaspera.

Ho sempre pensato molto a questa situazione paradossale, alla quantità di energia e di possibilità sprecate nelle carceri.

Al paradiso che potrebbe essere edificato nell’inferno delle carceri, se gli abitanti di quei luoghi potessero prendere coscienza e sviluppare conoscenza, arte, cultura.

Serve una scintilla, una leva, e tutto si rivolge, come è accaduto a te. 

Tu sei l’esempio. 

Che conferma l’idea del lavoro vitale che si può fare nelle carceri.

La grande poesia non è mai venuta dalla libertà assoluta, al contrario: i poeti si sono dati regole ferree, ritmi, rime, strutture, perché solo dal conflitto vitale fra limite e tensione all’infinito scaturisce la forza creativa dell’uomo.

Queste riflessioni sono fantasie prive di fondamento di uno che non è mai stato in carcere, oppure fra i carcerati si muove anche qualcosa che va in questa direzione?

Lo domando a te, che hai avuto questo destino: come Tiresia ha potuto vivere sia da uomo che da donna, così tu hai potuto vivere sia da “cattivo” che da “buono”, tu sai molte più cose che noi.